Battle Athletes – La serie anime OVA del 1997

“Battle Athletes Daiundōkai”: quando lo sport incontra il mito – una rilettura di genere e spirito
Ci sono anime che si scoprono per caso, magari in una notte insonne del sabato, mentre si naviga in cerca di qualcosa di insolito, dimenticato o semplicemente sottovalutato. Battle Athletes Daiundōkai è stato per me uno di quegli incontri. Una serie che, pur avendo lasciato una traccia tangibile nei palinsesti degli anni ’90, oggi sembra fluttuare in una zona liminare della memoria collettiva otaku. Eppure, riguardandola oggi con l’occhio di chi ha digerito decenni di narrazioni animate, questo anime si rivela come una creatura curiosa, ibrida, a tratti sperimentale, a tratti retaggio di una stagione dell’animazione giapponese che cercava nuove strade nel mezzo del guado tra post-modernità e revival.
Un contesto in orbita
Battle Athletes Daiundōkai nasce come OVA nel 1997 e viene seguito nel 1997-98 da una serie TV intitolata Battle Athletes Victory, in un momento in cui l’industria anime era in piena transizione: i tempi delle grandi produzioni speculative degli anni ’80 erano tramontati, e il mercato si stava dirigendo sempre più verso il target otaku, ma anche verso forme ibride capaci di parlare sia al giovane pubblico sia a uno spettro più ampio. Siamo nei pressi di quegli anni che vedono nascere Cowboy Bebop, Serial Experiments Lain, Revolutionary Girl Utena—un contesto in cui le narrazioni si facevano più simboliche, stratificate, anche decostruzioniste. Daiundōkai, però, prende una strada diversa: gioca con l’archetipo, si traveste da parodia e finisce per raccontare qualcosa di più malinconico di quanto non prometta all’inizio.
Una premessa “atleticamente” surreale

La storia si svolge in un futuro in cui l’umanità ha colonizzato lo spazio e ha creato un torneo intergalattico per eleggere la “Cosmic Beauty”, ovvero la donna più forte e talentuosa dell’universo. Sì, suona come una parodia di un concorso di bellezza, e in parte lo è. Ma sotto questa premessa apparentemente assurda si muove una riflessione molto più concreta su identità, sacrificio, aspettative e solitudine. La protagonista, Akari Kanzaki, è figlia di una leggendaria Cosmic Beauty e porta sulle spalle il peso di un’eredità schiacciante. Già qui si intravede un tema portante: quello della pressione intergenerazionale, della ricerca di sé attraverso il superamento del mito materno, in una dimensione tutta femminile.
I personaggi di Battle Athletes



Akari Kanzaki: l’eroina imperfetta
Akari è il cuore pulsante della serie, eppure non ne è mai la protagonista assoluta. È più un centro gravitazionale attorno al quale ruotano le dinamiche di crescita, rivalità e affetto. Figlia d’arte, è schiacciata da un’eredità materna mitologica che la paralizza invece di motivarla. Clumsy, insicura, infantile: Akari rifiuta l’archetipo della “campionessa nata” e si configura come un personaggio fondamentalmente umano. Il suo percorso è una lenta, dolorosa risalita dal senso d’inadeguatezza, in cui ogni progresso atletico corrisponde a un avanzamento psicologico. Simbolo di questa metamorfosi è il taglio di capelli: gesto semplice, ma carico di valore nella grammatica visiva degli anime. La “Akari House”, la scatola di cartone in cui si rifugia, è una trovata brillante: tragicomica, malinconica, infantile ma anche potentemente simbolica.
Ichino Yanigida: il calore della terra, il gelo del distacco
Ichino è la migliore amica che tutti vorremmo e il rivale che tutti temiamo. Ha il cuore acceso e il sorriso pronto, ma sotto la sua allegria si cela un’identità complessa: è il personaggio che più patisce l’ascesa improvvisa di Akari. Il suo infortunio, in un momento cruciale della loro competizione, assume un valore quasi shakespeariano: il destino che punisce la gelosia nascosta sotto l’amicizia. La sua confessione d’amore verso Akari è gestita con delicatezza, senza mai scivolare nel melodramma o nell’etichettamento forzato, contribuendo a creare una rappresentazione del desiderio femminile sincera e poco convenzionale per l’epoca.
Jessie Gurtland: l’ideologia del merito, fino alla rovina
Jessie è l’antitesi narrativa di Akari. È quella che ha fatto “tutto giusto”, quella che ha sofferto, lottato, ottenuto risultati. Ma è anche una figura tragica, prigioniera della propria idea di perfezione. Il suo disprezzo per Akari è in realtà paura del proprio fallimento, del proprio non essere abbastanza nonostante tutto. Cresciuta nella povertà, affamata di riscatto, Jessie è una figura quasi dostoevskiana: un’eroina mancata, una martire del merito. La sua sconfitta non è solo fisica ma esistenziale, e il suo ritiro dalla scena è uno dei momenti più dolorosi della serie. Nella versione manga, il suo rapporto con Akari è invece più disteso, da “rivalità positiva”: una variante interessante che rivela quanto il tono della serie televisiva voglia esplorare territori più cupi.
Ayla Roznovsky: gelo, onore e disillusione
Ayla è l’archetipo della “glaciale”, ma il suo rigore non è vuoto: è un modo per mantenere il controllo in un mondo che le ha tolto ogni punto di riferimento. Scoprire che la propria nazione è caduta è un trauma geopolitico che diventa, per lei, un crollo d’identità. Ayla smette di lottare non perché è debole, ma perché perde lo scopo. La sua parabola personale non culmina in un trionfo sportivo, ma nella costruzione di una famiglia: un atto di rinascita, che porta a dare il nome della sua rivale più rispettata, Jessie, a sua figlia. È un gesto potente, poetico, che parla di riconciliazione e di memoria.
Tarnya Natdhipytadd: l’animalità dell’innocenza
Tarnya è la forza istintiva, la natura selvaggia che irrompe nel contesto regolamentato dell’agonismo spaziale. Corre a quattro zampe, mangia voracemente, vive senza filtri. È il personaggio più cartoon nel senso stretto del termine, ma non per questo meno significativo. Rappresenta la libertà da aspettative e sovrastrutture, eppure anche lei deve affrontare la delusione della sconfitta. Non accede alla finale, ma rimane fedele al gruppo. In questo senso, Tarnya incarna una forma di graceful loser, una vittoria morale in un contesto dove tutto sembra misurato in podi e cronometri.
Kris Christopher e Anna Respighi: misticismo e ambiguità
Kris è un personaggio che mescola sensualità, spiritualità e comicità in un cocktail straniante. È una sacerdotessa lunare che ama le mucche e cammina nuda nei corridoi. Una figura liminale, che si pone al confine tra l’ascetismo e l’assurdo. Il suo amore per Akari non è mai completamente esplicitato, ma si manifesta come tensione costante, mai davvero risolta. In questo, si fa portavoce di una queer theory implicita, non proclamata ma chiaramente leggibile.
Anna, invece, è l’ambiguità fatta persona. La versione OVA gioca con il tema dell’identità di genere in modo sorprendentemente audace per un anime di fine anni ’90, mentre nella serie TV il personaggio viene normalizzato in una versione più dolce e tradizionale. In entrambe le versioni, tuttavia, Anna conserva un’ambivalenza interna che la rende disturbante e fragile allo stesso tempo. La sua ferita familiare è ancora aperta, e la violenza che ha inflitto alla sorella è un nodo irrisolto fino alla riconciliazione finale.
Miranda e Larrie: la rivalità come religione
Larrie e Miranda sono due colonne portanti della seconda parte della serie. Se Larrie è l’incarnazione dell’ossessione vincente – una macchina da guerra senz’anima – Miranda è la rabbia incanalata nel desiderio di rivalsa. Entrambe si muovono con la potenza di personaggi da tragedia greca. Larrie, pur avendo già vinto, continua a competere perché non ha trovato altro senso nella vita; Miranda vive solo per battere Larrie. La loro parabola si chiude con una sconfitta doppia, che è anche una liberazione. La rivalità non è più guerra, ma dialettica: non vogliono più distruggersi, ma migliorarsi. È un’evoluzione che va letta in chiave post-agonistica: la vittoria non conta più, conta solo la relazione.
Lo stile visivo: fra nostalgia e sperimentazione
Dal punto di vista grafico, Battle Athletes sembra portare addosso il segno di due anime: da un lato, l’estetica “da OVA anni ’90”, con un character design molto curato nei volti femminili (occhi grandi, tratti morbidi, spesso accentuati da un’illuminazione quasi romantica), dall’altro un’animazione che alterna momenti sorprendentemente fluidi a sequenze più statiche, spesso risolte con tecniche economiche. Ma ciò che colpisce è l’uso del colore: l’ambientazione spaziale si mescola con un’estetica da campus sportivo quasi terrestre, dove i toni pastello convivono con lo scintillio metallico delle stazioni spaziali.
La regia si prende il suo tempo, indulge spesso in campi lunghi e in inquadrature che mettono in risalto la fisicità delle protagoniste, ma senza mai scivolare nel fanservice volgare. Siamo lontani dal voyeurismo esasperato di certo ecchi coevo. Qui il corpo femminile è mostrato in tensione, in fatica, in gara. È uno strumento narrativo, non solo un oggetto visivo.
Dialoghi, ritmo e costruzione narrativa
La scrittura oscilla tra toni comici (con una vena slapstick evidente nei primi episodi) e momenti di introspezione sorprendentemente autentici. I dialoghi non sono mai veramente sofisticati, ma riescono spesso a colpire nel segno grazie a una costruzione episodica che alterna slice of life e momenti di alta tensione sportiva. Alcune puntate si reggono interamente su piccole dinamiche di relazione, rivalità, amicizia e insicurezza: è qui che la serie mostra il suo volto più umano.
Il ritmo è volutamente diseguale, quasi svogliato a tratti, ma questa lentezza finisce per costruire un mondo credibile, dove l’allenamento è davvero fatica, sudore e solitudine. Non ci sono scorciatoie: le protagoniste falliscono, dubitano, si arrendono. La crescita è lenta e mai lineare, come nella realtà.
Musica e doppiaggio: un’atmosfera sospesa
La colonna sonora, firmata da Masamichi Amano, è un altro degli elementi che definisce l’identità della serie: un mix di orchestrazioni epiche, inserti pop anni ’90 e temi più malinconici che accompagnano i momenti di riflessione. Il risultato è un impasto sonoro che contribuisce a quel senso di sospensione temporale che permea tutta la narrazione: non siamo davvero nel futuro, ma in una specie di eterno presente emotivo.
Il doppiaggio originale giapponese è efficace, con una menzione particolare a Yūko Miyamura nel ruolo di Akari: riesce a rendere palpabile la fragilità e la determinazione del personaggio. Il doppiaggio italiano, per chi ha avuto modo di vederlo nei primi anni 2000, resta fedele allo spirito originale, anche se pecca talvolta di una certa piattezza emotiva nelle scene più delicate.
Temi e sottotesti: oltre l’atletica
Battle Athletes Daiundōkai parla di sport, certo, ma lo sport è una scusa per parlare d’altro: della pressione sociale, della ricerca della propria identità, del bisogno di appartenenza. In un mondo dominato da standard impossibili e aspettative esterne, queste ragazze si cercano tra corse, salti e allenamenti, e si scoprono umane in uno spazio che vorrebbe renderle perfette. C’è anche una lettura di genere possibile: in un universo apparentemente dominato dalle donne, i modelli sono comunque patriarcali, e la “bellezza cosmica” resta un obiettivo che richiama, ironicamente, certi cliché da Miss Universo galattica.
La serie, pur rimanendo accessibile a un pubblico giovane, ha sottotesti che parlano chiaramente anche agli adulti, soprattutto a chi ha vissuto sulla propria pelle la sensazione di dover essere “all’altezza”.
Confronti e eredità
Se volessimo accostare Battle Athletes ad altri titoli, potremmo pensare a una versione sportiva e meno trasgressiva di Utena, o a una cugina più emotiva di Gunbuster. Anche Aim for the Ace! aleggia come spirito guida, ma Daiundōkai ha un tono tutto suo, più contenuto, meno spettacolare, più intimo. In un certo senso, anticipa quel filone “sportivo introspettivo” che vedremo esplodere anni dopo con Haikyuu!!, Run with the Wind o Stars Align, ma con una patina retrò e surreale che lo rende unico.
Una chiusura personale
Rivedere Battle Athletes Daiundōkai oggi è come aprire un cassetto di ricordi mai avuti: è familiare e strano insieme. Non è un capolavoro, e non vuole esserlo. È una serie dissonante, a volte goffa, ma per questo sincera. Mi ha lasciato addosso la sensazione di qualcosa di incompleto ma necessario, come certe gare che non si vincono ma che servono comunque a capirsi. La consiglierei? Sì, ma a chi ha voglia di attraversare un tempo diverso, più lento, più vulnerabile. È una visione che richiede attenzione e pazienza, ma che ripaga con immagini e sentimenti che non si dimenticano.