Jane e Micci – La serie anime del 1971

È curioso come certi titoli, apparentemente minori nella storia dell’animazione giapponese, riescano a conquistare un piccolo culto di appassionati: “Jane e Micci” è uno di questi casi. Se da un lato non ha goduto dell’enorme clamore mediatico di altre serie coeve, dall’altro ha saputo ritagliarsi un’identità particolare, rimanendo in qualche modo impresso nella memoria di chi lo ha seguito. Non è un titolo che troverete citato troppo spesso, ma nei forum di nostalgici o tra gli appassionati di “tesori nascosti” dell’animazione, ogni tanto salta fuori come una vecchia fotografia un po’ sgualcita ma ancora ricca di fascino. In Italia la serie anime è stata trasmessa nel 1983 nelle varie emittenti televisive locali.

Dal punto di vista narrativo, ci sono i classici ingredienti delle produzioni giapponesi degli anni Settanta e Ottanta: avventura, amicizia, momenti di piccola quotidianità che si mescolano con eventi straordinari, in un equilibrio spesso precario tra ironia e sentimento. “Jane e Micci” – già dal titolo – suggerisce un legame forte tra i due protagonisti, e in effetti la serie si sviluppa intorno alla loro crescita personale, con la consueta lezione morale di fondo che era tipica di quel periodo. Ma non pensiamo che basti la morale “fai la cosa giusta” a rendere memorabile un cartone: qui entra in gioco lo stile con cui vengono presentati conflitti, gag, trionfi e sconfitte.
Sul versante visivo, è figlia di quella fase in cui l’animazione tradizionale, realizzata ancora con celluloidi e vernici, stava spingendo per rendere più fluide le scene d’azione e arricchire la tavolozza. Siamo ancora lontani dalla precisione digitale o dai filtri patinati di oggi, eppure c’è un calore tattile nei contorni leggermente imperfetti, nelle sovrapposizioni di colore, un aspetto “umano” che molti fan rimpiangono. Studios come Toei Animation stavano già sperimentando nuovi approcci, e sulla scia di grandi maestri (da Hayao Miyazaki a Leiji Matsumoto) persino le serie “minori” cercavano un tocco personale: “Jane e Micci” non fa eccezione, integrando qua e là scelte cromatiche insolite o sfondi dai toni quasi fiabeschi. Forse non sarà un trionfo artistico a 360 gradi, ma ha un’estetica che la rende riconoscibile all’occhio allenato.



Dal punto di vista culturale, ci muoviamo in un contesto in cui l’anime iniziava a diffondersi su scala internazionale. E proprio “Jane e Micci” è un esempio di come le produzioni destinate inizialmente al mercato giapponese abbiano poi trovato diffusione in Europa, con doppiaggi talvolta imprevedibili e adattamenti che si portavano dietro tagli o modifiche. Ancora oggi, alcune differenze fra la versione originale e quella trasmessa in altri Paesi fanno discutere i fan su forum dedicati: censure di scene ritenute troppo forti, cambi di nomi, musiche ripensate per i gusti occidentali. Giusto o sbagliato? Difficile dare una risposta netta, perché l’adattamento è sempre un gioco di equilibri tra fedeltà e fruibilità.
In definitiva, “Jane e Micci” rimane un tassello singolare nella storia dell’animazione giapponese importata in Europa. Non ha mai preteso di rivoluzionare il medium, ma ha saputo esistere in un periodo di grande creatività, portando con sé quella spensieratezza e quella sfumatura sentimentale che contraddistinguevano molti lavori dell’epoca. Qual è il suo vero lascito? Forse è semplicemente la capacità di evocare un sorriso nostalgico in chi l’ha visto, e di incuriosire i nuovi spettatori in cerca di gioielli un po’ dimenticati. E in un mare di remake, reboot e saghe infinite, c’è qualcosa di poetico nel ricordarci di un cartone così, quasi fosse un segreto sussurrato da vecchi appassionati in cerca di piccole perle da riscoprire. Chissà, magari un giorno si tornerà a parlare di “Jane e Micci” con l’entusiasmo delle grandi serie: e se non accadrà mai, è bello che rimanga, intatto, in quella nicchia di piccoli cult dal sapore vintage.
La produzione di Jane e Micci
A volte ci si dimentica quanto la realizzazione di un anime possa essere un viaggio corale, in cui ogni elemento – dalla storia originale al doppiaggio finale – contribuisce a creare l’atmosfera unica di una serie. “Jane e Micci”, conosciuta anche come “Sasurai” o “Che segreto!” in alcune edizioni, rappresenta un esempio curioso di questa complessità produttiva. Prima di diventare un anime, la storia prende vita sulle pagine di “Shōjo Comic” grazie a Keisuke Fujikawa (testi) e Mayumi Suzuki (disegni), pubblicata da Shogakukan tra l’agosto del 1970 e l’agosto del 1971. Parliamo di un manga shōjo in quattro volumi, che mescolava toni drammatici e spunti musicali: due ingredienti forse un po’ atipici per l’epoca, ma capaci di attrarre lettrici (e lettori) in cerca di emozioni forti e quel pizzico di magia melodica.
La trasposizione animata, andata in onda dal 8 aprile al 30 settembre 1971 su Fuji TV, è affidata a Mushi Production, una casa di produzione strettamente legata all’eredità di Osamu Tezuka. Tra le mani di questo studio, “Jane e Micci” trova un’identità visiva personale, pur rimanendo all’interno dei canoni tecnici del periodo: il rapporto 4:3, i 24 minuti a episodio, la colorazione a celluloide. La regia di Katsumi Hando organizza la narrazione su 26 episodi, mentre Hideki Fuyuki firma le musiche, regalando a certi momenti un tocco quasi teatrale. E poi c’è il lavoro sui personaggi: Shinya Takahashi e Yoshikazu Yasuhiko definiscono i tratti estetici, trasmettendo allo schermo quel senso di eleganza tipico dello shōjo, con linee sottili e particolare attenzione a sguardi e posture.
Non meno affascinante è la storia del suo arrivo in Italia. Trasmesse su televisioni locali nel 1983, le 26 puntate mantengono la durata originaria di 24 minuti, ma con doppiaggio e adattamento gestiti dapprima da CRC e poi da Merak Film. Giovanni Brusatori cura la direzione del doppiaggio nella prima edizione, e anche in questo aspetto si sentono i compromessi tipici dell’epoca: il passaggio da un contesto culturale all’altro richiedeva inevitabili modifiche o semplificazioni, creando spesso discussioni fra i puristi dell’originale e chi invece apprezzava un maggiore accesso al pubblico locale.
È interessante notare come “Jane e Micci”, pur avendo un’anima drammatica e musicale, non si perda in toni eccessivamente melensi. Piuttosto si percepisce un equilibrio delicato tra tensioni emotive e momenti di leggerezza, frutto dell’intreccio tra la mano di Fujikawa, Suzuki e l’apporto di sceneggiatori come Shun’ichi Yukimuro. Questo intreccio di creatività e professionalità ci ricorda che dietro ogni anime c’è un mosaico di talenti e influenze, e forse proprio lì risiede il suo fascino eterno: in quella pluralità di voci che, messe insieme, conferiscono a “Jane e Micci” una sfumatura unica tra i tanti titoli della scena anni Settanta. E, si sa, per gli appassionati di animazione, scovare queste sfumature è parte del divertimento.


